lunedì 21 giugno 2010

Vinicius - nascita del commercio 29/03

Nascita del commercio e valutazione economica delle città europee.

Vinícius 29-3Inserisco quest a relazione fatta da Vinicius a marzo...

Nel 1300 Venezia e Firenze erano fra le città più grandi e importanti d´Europa. L´interesse per l´espansione commerciale era già molto grande: una nuova fase, in cui la struttura della società si modifica. I contadini affluiscono nelle città, che si rafforzano e conquistano libertà significative nei confronti dei signori feudali. L´esempio di Marco Polo, un commerciante di Venezia, è emblematico: organizza una spedizione fino in Cina, un paese ancora lontano per noi oggi, e allora al di fuori di ogni concezione, dat i mezzi di trasporto primitivi. Le città europee erano alla ricerca di una forma migliore di commerciare e produrre la seta, visto che Venezia era un grande centro di queste tipo di produzione (insieme a Firenze e altre città). L´industria tessile è quella che dá vita all´incipiente capitalismo
Così è cominciata un´espansione commerciale, la prima (la seconda sverrà realizzata nel Rinascimento).
Diversamente dalle altre parti d´Europa (che all’epoca non esisteva ancora!), queste città disponevano di grandi informazioni tecnologiche, eredità dell’Impero Romano. La penisola italiana, che era stata il centro dell´Impero (con Roma capitale), era piena di strade molto celeri, di industrie dell´epoca e di informazioni culturali. Doppo che è cominciato lo sviluppo economico, l´Italia ha potuto sviluppare la nuova forma economica, non essendoci un controllo imperiale (così come c´era in India e in Cina, mettendo un limite all´espansione). Il commercio e la manufattura e altre forme di produzione si potevano sviluppare. D´altra parte, l´Italia era una regione centrale del Continente europeo e un ponte naturale verso il mare Mediteraneo (a sua volta tappa obbligatoria per il commercio verso l´Oriente). Il commercio, a quell´epoca, si svolgeva per il 90% via mare.
Le Crociate sono state una forma della Chiesa di conquistare fedeli in altre parti del mondo, ma sono state sopratutto un veicolo dell´espansione dell´Europa (Venezia, Firenze, genova e alttre città europee) vero l´oriente dell´Mediterraneo (costituzione di un impero “latino”).

Includo questo testo (molto semplice da leggere!) e che continene in sostanza tutti gli elementi della questione della lingua di cui abbiamo parlato, con alcune significative aggiunte.
Su questo testo chiederò il 5 luglio in classe la risposta a 5 domande (un piccolo compito). Lo chiamano COMPITO IN CLASSE !!!
Andrea

http://www.homolaicus.com/letteratura/questione_lingua.htm

LA QUESTIONE DELLA LINGUA ITALIANA


"Non si può trovare una lingua che parli ogni cosa per sé senza aver accattato da altri" - Niccolò Machiavelli

I
PREMESSA
Durante i secoli della dominazione romana il latino si era imposto sulle lingue indigene in Italia, Francia, Spagna, Portogallo e Romania, mentre nella parte orientale dell'impero si era conservata la lingua greca. Quando l'impero crollò, le lingue occidentali parlate prima d'essere influenzate dall'egemonia latina, presero il sopravvento e mescolandosi col latino parlato (assai diverso da quello scritto di Virgilio, Orazio o Cicerone) determinarono le nuove lingue romanze o neolatine. Le invasioni germaniche dispersero la debole influenza romana nell'Europa centrale, settentrionale e orientale.
E così si formarono: in Francia, a nord, il gallo-romanzo, antenato del francese, a sud il provenzale; in Spagna, al centro, lo spagnolo o castigliano, sulle coste atlantiche il gallego, antenato del portoghese, a est il catalano (simile al provenzale); in Romania i contadini conservano la loro lingua di origine latina, che diventa ufficiale nel XVI sec..
In Italia riemergono i vari substrati pre-latini, che però restano per molto tempo senza scrittura, in quanto alle necessità dello scrivere - testi scientifici, filosofici, teologici, giuridici- continuano a provvedere col latino gli ecclesiastici. Tali substrati si mescolano con popolazioni straniere che, stanziatesi in territori diversi della penisola, parlano linguaggi completamente diversi: Longobardi, Greco-Bizantini, Franchi, Arabi, per citare solo i più importanti.
In una situazione del genere, il latino parlato evolve inevitabilmente per suo conto, mentre per la conservazione di quello scritto si preoccupa la chiesa. E così il bilinguismo tra parlato e scritto riproduce, in un certo senso, il distacco fra le élites dotte e le masse degli analfabeti: non a caso nella funzione della messa l'aspetto liturgico vero e proprio viene recitato in latino, mentre l'omelia è sempre pronunciata in volgare (o comunque esiste l'obbligo, a partire dagli inizi del IX sec., di tradurla in volgare).
Ciò significa che è impossibile ricostruire la nascita dei vari dialetti italiani. Delle trasformazioni del latino parlato si hanno pochissimi documenti ed essi non riproducono la lingua parlata del popolo nella sua genuina spontaneità, ma una lingua che il popolo potesse capire, elaborata quindi da intellettuali.
A tutt'oggi, le lingue diverse dall'italiano (parlate alloglotte di circa 600.000 persone) presenti nella nostra penisola sono le seguenti: franco-provenzale nelle Alpi piemontesi, in Val d'Aosta e in due Comuni della Puglia; provenzale nelle Alpi piemontesi e in un Comune della Calabria; tedesco nell'Alto Adige e in altre zone alpine e prealpine; sloveno in alcune zone del Friuli e nelle Alpi Giulie; serbo-croato in alcuni Comuni del Molise; greco in alcune zone del Salento e della Calabria; albanese in alcuni Comuni del Molise, della Campania, del Gargano, della Lucania, della Calabria e della Sicilia; catalano nel Comune di Alghero e in Sardegna. Quelle riconosciute come lingue ufficiali sono il francese in Val d'Aosta, il tedesco in Alto Adige e lo sloveno in alcune zone del Friuli.
Se poi prendiamo la situazione dei dialetti italiani la situazione si complica incredibilmente. Infatti all'interno di tre grandi gruppi di dialetti: settentrionali, toscani e centro-meridionali (cui bisogna aggiungere i dialetti sardi e ladini), vi sono un'infinità di sottogruppi. Per quanto oggi relegati a un uso quasi esclusivamente locale e familiare, continuano a sussistere, costituendo un bacino di risorse espressive per la stessa lingua italiana. Non a caso è notevolmente aumentato il loro studio da parte degli specialisti.
* * *
In Italia le prime parole in volgare si trovano in una serie di iscrizioni latine (392, 404…). Di regola i documenti che ci sono pervenuti sono stati compilati da persone che conoscevano perfettamente il latino e si sforzavano di comunicare in volgare, per fissare regole comuni, rapporti giuridici, contratti ecc.
Il famoso indovinello veronese, vergato da un amanuense che descrive con ironia la propria arte, risalente all'inizio del IX sec.: Se pareba boves…, manifesta una lingua certamente non più latina. Il Glossario di Monza del X sec. ha 63 parole dell'Italia padana tradotte in greco. Con la Carta capuana del 960 siamo addirittura in presenza, per la prima volta, di una frase in volgare indicante un giuramento formulato da un giudice ai testimoni. Nel 1084 vengono trovate nella basilica di S. Clemente di Roma delle frasi ingiuriose in un affresco di pittore ignoto.
Il modello umbro, già presente nell'XI sec., raggiunge le sue più alte espressioni nelle Laude di Jacopone da Todi e nella poesia religiosa.
Particolare importanza hanno taluni documenti scritti in dialetto piemontese, come i 22 Sermoni subalpini del sec. XII, che presentano caratteristiche tipiche di tutta la famiglia dei dialetti settentrionali.
Il primo tentativo sistematico di elaborare una vera e propria lingua letteraria volgare, nella quale possano essere espressi contenuti di carattere profano e amoroso, è rappresentato dal cosiddetto linguaggio franco-veneto, che si afferma nella Padania, regione aperta agli influssi francesi e provenzali. Esempi tipici di questa lingua sono le opere di Bonvesin da La Riva (1240-1313) e di Giacomino da Verona (seconda metà del XIII sec.).
C'è poi il modello bolognese, di cui sono esempi le glosse di Irnerio (1055-1125) al Corpus Juris Civilis di Giustiniano; la cosiddetta "Glossa ordinaria" di Francesco d'Accursio (1182-1258); le opere del maestro di retorica Guido Fava (c.1190-c.1243).
E così fino a quando la prevalenza del volgare assumerà un suo punto di forza nel toscano e, particolarmente, nel fiorentino che, per la sua omogeneità espressiva e affinità strutturale è il volgare più vicino al latino: cosa resa possibile dal fatto che la Toscana fu relativamente la regione meno influenzata dalle invasioni barbariche.
* * *
La letteratura italiana nasce e si sviluppa nel corso del XIII sec. Essa nasce dotta e in un periodo in cui nuovi strati di intellettuali emergono dalla rivoluzione socioeconomica legata all'affermarsi dei Comuni (specie nell'Italia centrosettentrionale), che si verifica nel corso dell'XI sec. e soprattutto del XII sec. I Comuni cioè tendono a trasformarsi in città-stato, in grado d'imporsi ai feudatari della campagna circostante e capaci di difendere la loro autonomia dalle interferenze dell'imperatore (il quale infatti con la pace di Costanza del 1183 sarà costretto a riconoscerla). I Comuni possono eleggere i propri dirigenti politici, amministrare la giustizia, battere la moneta, armarsi. Gli strati sociali più importanti sono quelli mercantili (commercianti, artigiani...), oltre a quelli professionali (giuristi, medici, maestri...), tutti legati a Corporazioni o Arti per tutelare i loro interessi.
Questi nuovi strati cittadini ebbero subito bisogno di intellettuali non più collegati alla Chiesa né di provenienza nobiliare. Gli intellettuali però si muovono ancora in un clima culturale dominato dalla teologia medievale, anche se alcune correnti teologiche si vanno progressivamente laicizzando (ad es. lo Stato non è più visto come "braccio secolare" della Chiesa ma come una naturale forma associativa degli uomini). Ciò significa che i primi intellettuali dei ceti mercantili e borghesi non potevano essere originali sul piano dei contenuti, però lo erano sicuramente sul piano della forma espressiva. Infatti, la più importante caratteristica del nuovo ceto intellettuale è l'uso del volgare (cioè della lingua del popolo, in contrapposizione alla lingua dei dotti, della cultura: il latino).
Naturalmente l'affermazione iniziale del volgare avviene con molte difficoltà. I problemi maggiori però non erano tanto quelli posti dai cultori laici ed ecclesiastici del latino, quanto quelli posti dall'esigenza di farsi capire sia dalle persone colte che dal popolo. Da un lato infatti s'imponeva l'uso della lingua di tutti i giorni, dall'altro -essendo questa lingua divisa in tanti dialetti e scarsamente definita- c'era il rischio di creare una letteratura sempre subalterna al latino, il quale, nonostante non fosse più parlato dalle masse, restava la lingua scritta universale. Di qui l'esigenza di trovare un compromesso. E fu così che nacque una sorta di volgare "nobilitato" e illustre, adatto sia ai colti che al popolo, un volgare elevato alla dignità espressiva del latino.
II
LA LETTERATURA VOLGARE IN POESIA (SEC. XIII)
"Le lingue non possono esser semplici,ma conviene che sieno miste con l'altre lingue".Niccolò Machiavelli
Il sec. XIII segna in Italia, con ben due secoli di ritardo rispetto alla Francia, l'inizio dell'affermazione del volgare scritto. Il ritardo era dovuto al fatto che in Italia persisteva una tradizione letteraria classico-latina, sostenuta dal ceto ecclesiastico e anche dagli intellettuali laici che frequentavano le corti signorili, tenendosi ben lontani dalle esigenze popolari.
Sulla nostra letteratura in volgare cominciano ad esercitare una certa influenza due letterature neolatine sorte in Francia già nell'XI sec.: quella d'OC o provenzale od occitanica (Francia meridionale), attraverso i poeti provenzali stanziati in Italia, e, in misura minore, quella d'OIL od oitanica (Francia settentrionale). La lingua d'OC era ritenuta particolarmente adatta alle rime; quella d'OIL alla prosa.
In particolare, la poesia provenzale influenzò tutta la nostra lirica amorosa, per la tematica e per il rigore stilistico-espressivo. Dalle corti feudali francesi si diffusero valori come lealtà, liberalità, discrezione, eroismo, l'amore inteso come passione irresistibile e dedizione assoluta. Il poeta, come un vassallo, rende omaggio all'amata (una castellana), aspetta da lei un beneficio per la sua dedizione (che può anche essere un sorriso), soffre per la lontananza.
La letteratura in lingua d'OIL, costituita dalle canzoni di gesta eroiche, epiche e dai romanzi dei cicli carolingio e bretone (ad es. la Chanson de Roland, che narra le imprese di Carlo Magno e dei suoi paladini contro i saraceni dilagati in Spagna; oppure Le gesta di re Artù e dei cavalieri della tavola rotonda, Lancillotto, Leggende di Tristano e Isotta ecc.), si mescola con la lingua veneta, producendo una letteratura non molto diffusa.
La scuola siciliana
La prima espressione poetica italiana, attuata da una omogenea cerchia di intellettuali e rimatori, che seppero fondere influssi arabi, elementi indigeni, tradizioni franco-normanne coi motivi della poesia lirico-provenzale, si svolge alla corte palermitana di Federico II di Svevia, re di Sicilia e imperatore del Sacro Romano Impero. L'Italia meridionale, con questo felice esordio, entra a pieno titolo, seppure per breve tempo, nell'ecumene della lirica cortese, accanto a Catalogna, Francia del Nord, Germania renano-danubiana, Portogallo, Galizia e ovviamente Provenza.
Ciò che ha sempre stupito i critici è stata l'improvvisa apparizione di tale scuola proprio nella Magna Curia palermitana, visto e considerato che Federico II, una volta divenuto imperatore, non mostrò alcun particolare interesse nei confronti dei poeti-musici tedeschi, autori e cantanti del Minnesang (canzoni d'amor cortese). È probabile che l'impulso dato da Federico alla "traduzione" e all'adattamento in un volgare italiano del modello trobadorico, fosse dettato sia da ragioni politiche: suo obiettivo era quello di realizzare uno Stato italiano forte e accentrato e la diffusione del volgare (il cui nemico principale era il latino ecclesiastico) serviva certamente allo scopo; che da ragioni culturali: gli ambienti della corte sveva dovevano essere già permeati di cultura cortese; intellettuali e funzionari non siciliani come Pier della Vigna, Rinaldo d'Aquino, Jacopo da Lentini (cui è attribuita l'invenzione del sonetto) e altri ancora non potevano ignorare la presenza di diversi trovatori nelle corti dell'Italia settentrionale, o non essere a conoscenza di precedenti traduzioni della lirica d'OC in altre lingue (almeno in francese e in tedesco).
I poeti siciliani (Guido delle Colonne, Stefano Protonotaro, Cielo d'Alcamo, Giacomino Pugliese…), quasi tutti funzionari di stato (a differenza dei trovatori del Mezzogiorno francese, provenienti dalle classi più disparate), pur richiamandosi alla tradizione lirica provenzale, di questa rifiutano i temi dell'esaltazione delle imprese militari, gli insegnamenti morali, la polemica politica, la satira dei costumi, e accettano solo l'amore cortese, intendendo la poesia solo come evasione intellettuale. La tendenza amorosa comprende la passionalità che rende "schiavi d'amore", il dolore per il distacco dall'amata, l'esitazione a manifestare il proprio amore, le lodi della donna, il biasimo per i maldicenti-indiscreti-invidiosi. La donna spesso è immaginata bionda e raffinata.
La prima canzone scritta in siciliano è Madonna, dir vo voglio, del Lentini, che è un fedele rifacimento di una canzone di Folchetto di Marsiglia.
Ben più importante di questi contenuti è lo stile delle poesie. I poeti siciliani usarono come strumento linguistico di partenza il volgare dell'isola e non una varietà letteraria sovraregionale, come nella lingua dei trovatori. Il volgare siciliano viene perfezionato nel lessico e nella sintassi, modellandolo sull'esempio del latino usato dagli intellettuali e arricchendolo di molte parole provenzali tradotte.
Con la morte di Federico II (1250), cui seguì il rapido declino del dominio imperiale nel Mezzogiorno, conteso da Angioini e Aragonesi, la scuola ebbe termine. Quasi nessun manoscritto meridionale ci è giunto dei Siciliani, e i modesti poeti insulari del XIV sec. sembrano ignorare completamente i loro illustri predecessori.
La scuola toscana
L'eredità dei poeti federiciani fu raccolta nell'Italia centrale dai cosiddetti poeti siculo-toscani (solo grazie ai canzonieri toscani oggi possiamo leggere, seppure in forma non originale, la poesia dei Siciliani), e in un ambiente culturale più avanzato: Firenze, dopo la battaglia di Campaldino (1289) era diventata una capitale economica europea, in fase di espansione per tutta la Toscana. Il maggior poeta fu Guittone d'Arezzo (1235-94).
La tradizione siciliana viene dunque proseguita in Toscana perché molti intellettuali di questa regione erano vissuti per vario tempo alla corte di Federico II. Qui i componimenti ispirati al tema dell'amore non si discostano dai motivi cari ai siciliani e ai provenzali, però la preoccupazione -essendo le condizioni politico-sociali delle città toscane molto sviluppate- è quella di fare una lirica dotta, erudita, in uno stile complesso-difficile-ricercato. Inoltre non mancano i temi politici, soprattutto quelli dedicati a Firenze.
Il dolce Stil novo
A Firenze si sviluppa la scuola più significativa di questo periodo. Rappresentanti principali sono Guido Guinizelli e Guido Cavalcanti (quest'ultimo influenzerà notevolmente Dante). Qui il tema dell'amore viene purificato da ogni sensualità e diventa strumento di perfezione morale (che porta anche a Dio), per cui esso è patrimonio di pochi virtuosi. La donna è angelicata, oggetto di contemplazione. Lo stile diventa molto raffinato-limpido-musicale. C'è molta più attenzione per l'interiorità psicologica, per i sentimenti profondi. Lo stesso concetto di "nobiltà" ora si riferisce solo allo stato d'animo, agli intenti o all'ingegno.
La poesia comico-realistica
Si sviluppa sempre in Toscana e si contrappone allo stilnovismo. È l'espressione della piccola-borghesia comunale e degli strati popolari più attivi. Essa esalta ciò che la vita offre come piacere: vita gioiosa, spensierata, amore sensuale, piaceri materiali e immediati. La donna a volte è criticata perché considerata incapace di sentimenti disinteressati. Altri motivi sono la polemica e la satira politica contro i nemici personali, la caricatura scherzosa degli amici, l'anticlericalismo. Lo stile è mediocre perché molto vicino al parlato, adatto per una comunicazione immediata. Esponente più significativo: Cecco Angiolieri.
Letteratura religiosa in volgare
È quella di Francesco d'Assisi, che rifiuta i valori medievali fondati sulle rigide gerarchie e sulla guerra, i valori materialistici della nascente civiltà borghese-mercantile, i valori della religiosità ufficiale, che a livello teologico risultano incomprensibili alle masse e che a livello pratico risultano poco credibili. Poema principale: Cantico di Frate Sole (detto anche delle creature) del 1224. Si tratta di una lode degli elementi naturali (aria, acqua, fuoco, terra, sole) che rispecchiano -secondo l'autore- la bontà di Dio e che guidano l'uomo all'amore, al perdono dei nemici, alla serena accettazione della morte. È scritto in volgare umbro, semplice e comprensibile al popolo, benché sia ripulito dai termini dialettali e modellato sul latino.
Poi vi sono le laudi di Jacopone da Todi (francescano). Le migliori sono quelle a sfondo politico, ove egli attacca gli abusi del papato e i teologi che credono di poter trovare una giustificazione razionale della fede.
Anche i Fioretti di s. Francesco vennero scritti in un volgare di carattere popolare. Viceversa, la Leggenda di S. Francesco, di Bonaventura di Bagnoregio (1221-1274), che pure tratta della vita di un santo caro alle masse popolari, per ragioni di decoro venne redatta secondo i soliti canoni linguistici.
Letteratura volgare in prosa
Rispetto alla produzione in versi poetici, la prosa volgare si afferma più lentamente, a motivo del fatto che in questo campo il latino deteneva un'assoluta egemonia, mentre il genere poetico (visto sopra) non aveva riscontri nella tradizione culturale latina del Medioevo. La prosa in volgare si afferma perché le nuove classi dirigenti borghesi hanno bisogno di esprimere culturalmente i loro interessi e la loro sensibilità in una lingua alla loro portata. La prosa d'arte in volgare risponde generalmente ad esigenze pratiche ed è costituita da cronache, resoconti di viaggio (si pensi al Milione di Marco Polo), raccolte di novelle, riduzioni enciclopediche, traduzioni in volgare di opere francesi e latine.
III
LE TESI DI DANTE ALIGHIERI
"Non ci stupisce pertanto se i giudizi degli uomini,che son presso che bestie,stimano che una stessa cittàabbia sempre parlato un medesimo linguaggio".Dante Alighieri
I) Il primo scrittore che pone il problema di una lingua nazionale e che elabora un tentativo per risolverlo, è Dante Alighieri. Il testo in cui ne parla è De Vulgari Eloquentia (Sulla retorica in volgare), scritto in esilio verso il 1304, in latino, perché rivolto ai chierici, cioè ai letterati di professione: è quindi un'opera specialistica. (Si interrompe al cap. XIV del II° libro). Scrivendolo, Dante si rifà a quell'esigenza di unità linguistica, culturale e nazionale che molti intellettuali, anche prima di lui, sentivano in varie parti d'Italia. Lo scopo del trattato è quello di definire un idioma volgare che possa conseguire un'alta dignità letteraria, elevandosi al di sopra delle varie parlate regionali e sottraendosi all'egemonia del latino. Dante era convinto che i tempi fossero maturi per trattare temi di alta cultura e di alta poesia anche in lingua volgare (dal latino "vulgus"=popolo).
II) Dante sostiene che in Europa si sono stabilite delle stirpi dotate di un triplice idioma: germanico, greco, romanzo (quest'ultimo viene suddiviso in lingua d'OIL o francese, lingua d'OC o provenzale e lingua del Sì o italiana). Il latino non è per Dante una lingua-madre o capostipite, ma la grammatica inalterabile per mezzo della quale i popoli riescono a intendersi al di sopra degli idiomi particolari, cioè è il prodotto di un'alta elaborazione logica, in quanto possiede una struttura grammaticale rigidamente definita e serve alla comunicazione dei concetti più complessi e difficili del sapere. In tal senso il periodo migliore per gli italiani è stato, secondo Dante, quello romano-imperiale.
III) Dante individua, nell'ambito della lingua del Sì, 14 dialetti, distinguendoli in due gruppi secondo i due versanti tirrenico e adriatico dell'Appennino. Egli ritiene che nessuno di essi possa aspirare a diventare il linguaggio eletto, comune a tutti i letterati italiani; lo stesso toscano non era che turpiloquium, e "infroniti" (dissennati) coloro che, solo perché parlanti, lo ritenevano il dialetto migliore. La lingua nazionale si sarebbe potuta facilmente avere in Italia -secondo Dante- se ci fosse stata l'unificazione nazionale: in questo caso, alla corte del sovrano si sarebbero riuniti gli ingegni migliori di tutta la nazione, e dal loro contatto quotidiano sarebbe nata una lingua che, senza identificarsi con un dialetto particolare, avrebbe ritenuto il meglio di tutti. Non essendo politicamente possibile l'unità, il volgare illustre non poteva essere il prodotto di fattori storici e naturali, ma solo una costruzione artificiale di scrittori, poeti, ecc.: una lingua scritta, non parlata o parlata solo in ambienti molto ristretti, da persone di rango elevate.
IV) Si badi, Dante avrebbe voluto un volgare illustre non come sintesi suprema delle espressioni e delle parole più raffinate dei vari dialetti, ma come risultato di una progressiva liberazione dai limiti municipali delle varie parlate, dalle necessità pratiche e contingenti che rendono i vari volgari di scarsa dignità letteraria. Il volgare illustre doveva diventare il prodotto di un processo di depurazione delle forme rozze dialettali che ciascun poeta e scrittore doveva compiere nei confronti del proprio dialetto, al punto da determinare, nelle varie regioni, risultati abbastanza simili. Dante vedeva "in Italia -dice nel De Vulgari- un volgare illustre, cardinale, aulico e curiale, quello che è di ogni città italiana e non appare essere di nessuna, col quale i volgari tutti degli italiani sono misurati, pesati, ragguagliati". Egli diceva d'inseguire una "pantera" che s'aggira "per monti boschivi e pascoli d'Italia" (come fosse esiliata?), mandando ovunque il suo profumo, senza apparire in alcun luogo. Quanto, in tutto ciò, Dante avesse consapevolezza della superiorità del proprio volgare, è facile intuirlo. È lui stesso a dirlo. L'unico volgare illustre ch'egli intende veramente salvare, per la poesia, è quello degli stilnovisti (in particolare Guido Cavalcanti, Lapo Gianni, Cino da Pistoia e lui stesso) che ne hanno uno "egregio, limpido, perfetto, urbano".
V) Questa nuova lingua sprovincializzata doveva avere per Dante quattro caratteristiche: illustre (che dia onore e gloria a chi lo usa), cardinale (come un "cardine" attorno al quale devono ruotare le minori parlate locali), aulico (da "aula", cioè degno d'essere ascoltato in una corte regale), curiale (adatto all'uso di un'assemblea legislativa o senato). (Un'unica corte regale e un unico senato ancora l'Italia non li aveva, però le forze intellettuali, secondo Dante, costituivano potenzialmente la curia imperialculturale d'Italia).
VI) Dante poi distingue, nell'uso del volgare, lo stile elevato tragico (proprio della canzone) che può trattare gli argomenti più significativi: prodezza delle armi, amore e rettitudine, dallo stile medio o comico (che si addice alla ballata e al sonetto) e da quello umile o allegorico.
VII) Nella Divina Commedia Dante diede il primo esempio di come fosse possibile usare il volgare (in questo caso il fiorentino) ottenendo effetti poetici di grande valore e affrontando astratti problemi filosofici, politici, culturali. Il Petrarca e il Boccaccio proseguono sulla strada da lui indicata. Qui tuttavia va precisato che la lingua della Commedia è il fiorentino parlato medio e non tanto il volgare illustre di Firenze: si può anzi dire che l'opera sia plurilinguistica, a causa dei suoi molti gallicismi, latinismi, lombardismi, idiotismi vari e neologismi.
VIII) Dopo la morte del Petrarca (1374) e del Boccaccio (1375), per un secolo circa, i letterati italiani più colti interrompono l'iniziativa intrapresa nei primi decenni del Duecento di scrivere in volgare e ritornano al latino, non a quello medievale ma addirittura a quello classico della Roma antica. Di qui il disprezzo per quelle opere di Dante, Petrarca, Boccaccio, ecc. scritte in volgare (benché Petrarca e Boccaccio, ad es., per il loro tormentato distacco dalla scala di valori umani e spirituali del Medioevo anticipassero in un certo senso i temi dell'Umanesimo).
IX) L'uso del volgare, tuttavia, non scompare nel Quattrocento. Coloro però che continuano a scrivere in questa lingua compongono opere che hanno un carattere più pratico che letterario e che si rivolgono a un pubblico poco o per nulla colto. Gli stessi autori spesso erano di cultura inferiore. I generi preferiti erano le prediche pubbliche rivolte agli umili, le laudi che continuavano quelle trecentesche, i cantàri, cioè poemetti epico-avventurosi, recitati sulle piazze; lettere, ricordi familiari, vite dei santi, trattati ascetici e soprattutto sacre rappresentazioni, che erano drammi sacri recitati in piazza da attori dilettanti.
X) L'attività letteraria in volgare ora non solo è subalterna a quella in latino, ma appare anche estranea ai valori, agli ideali e ai temi culturali proposti dall'Umanesimo e si presenta piuttosto come una prosecuzione di generi letterari e contenuti tipici della civiltà trecentesca, per quanto tale letteratura non affronti più i sottili e astrusi argomenti teologici della Scolastica, ma i problemi più concreti e quotidiani della spiritualità cristiano-borghese.
XI) Paradossalmente, i contenuti più avanzati dell'Umanesimo (di carattere laico, razionalistico, naturalistico, ecc.) venivano espressi in una lingua sconosciuta al vasto pubblico, mentre la grande diffusione del volgare non implicava affatto una trasmissione di nuovi contenuti di vita. Perché questo dualismo? Perché gli intellettuali italiani, strettamente legati alle loro Signorie, non avevano più una preoccupazione di carattere nazionale e, nell'ambito delle loro corti, disprezzavano il popolo incolto e soprattutto erano convinti che la grande occasione del XIV sec., di creare un'Italia unita sotto un monarca la cui sovranità derivasse direttamente dal popolo, fosse definitivamente fallita. Ecco perché, invece di proseguire sulla strada del volgare, diffondendo le loro idee laiche e progressiste, gli umanisti preferiscono rivalutare le lingue classiche, latino e greco. Invece di concentrare gli sforzi verso un obiettivo comune: la democratizzazione della vita sociale, che portasse anche all'unificazione nazionale e la formazione di un unico mercato interno, i maggiori Comuni avevano preferito utilizzare le loro risorse culturali, politiche, economiche e militari per trasformarsi in Principati sempre più potenti e rivali tra loro.
UNA CRITICA AL DE VULGARI ELOQUENTIA
La cosa più curiosa di questo trattato è che Dante, per fare l'apologia del volgare illustre, sceglie l'antivolgare per eccellenza: il latino. La motivazione è ch'egli intende rivolgersi ai "letterati".
Dunque, il volgare parlato da operai, artigiani, contadini, commercianti… può trovare per Dante una legittimazione all'esistenza letteraria solo se viene sanzionato da quel ceto di intellettuali che quando scrive usa il latino proprio per tenersi lontano dal popolo! E non si può neppure dire che Dante sia stato il primo a comprendere l'importanza di mettere per iscritto gli idiomi popolari… Prima di lui altri intellettuali si erano cimentati nell'impresa: si pensi a Francesco d'Assisi, Jacopone da Todi, la scuola siciliana, Guittone d'Arezzo, gli stessi stilnovisti cui lui apparteneva.
Alcuni critici hanno giustificato la scelta del latino dicendo che Dante, in realtà, era incerto su quale tipo di volgare chiedere agli intellettuali di usare per poter scrivere di alta poesia; egli cioè non si pose il problema dell'unificazione linguistica degli italiani.
Ma questa interpretazione è alquanto riduttiva. Dante infatti non era solo un letterato, ma anche un politico e se, come politico, aspirava all'unificazione territoriale sotto l'egida imperiale (l'unica che secondo lui permettesse di superare gli antagonismi fra le Signorie), era davvero impossibile che non avvertisse, come letterato, il problema dell'unificazione linguistica (che il latino da tempo non era più in grado di garantire, se non appunto a livello di ceti intellettuali molto ristretti).
Un'altra cosa curiosa del trattato è che da un lato Dante vuol far l'apologia del volgare illustre (con cui sostituire il latino), dall'altro sottopone a critica serrata tutti i volgare della penisola, senza salvarne alcuno in particolare. Cioè invece di mostrare agli intellettuali i meriti, i pregi di questo e quel volgare, li squalifica en bloc, mettendo una seria ipoteca sull'utilità del trattato stesso. Persino il toscano (cioè la sua stessa lingua, quella che aveva usato per cantare le lodi di Beatrice) viene definita col termine di turpiloquium. Dunque perché atteggiamenti così contraddittori?
Qui si ha l'impressione che Dante misurasse il valore di tutti i volgari italiani col metro del proprio volgare. Egli infatti riteneva sì il toscano un turpiloquium, ma da esso ovviamente escludeva la produzione letteraria degli stilnovisti e, in particolare, la propria (anche se poi si cela dietro la falsa modestia di non citarsi mai per nome).
Probabilmente il trattato non era rivolto, in astratto, al ceto degli intellettuali, ma, in concreto, a qualche corte principesca che, politicamente forte, sapesse poi far valere su un territorio abbastanza grande, il più grande possibile, la superiorità del volgare letterario di Dante. "La bilancia capace di soppesare [le azioni da compiere] -egli afferma- si trova d'abitudine [???] solo nelle curie più eccelse".
A suo giudizio, infatti, occorreva scegliere un volgare piuttosto che un altro rispettando le condizioni "politiche" della "curialità" e "aulicità".
Dante mescolava di continuo i piani "letterario" e "politico", oppure li distingueva tenendoli però sempre ben presenti nell'economia delle sue trattazioni. Qui abbiamo a che fare con un genio letterario di altissimo livello (cosciente di esserlo), politicamente su posizioni tardo-feudali, cioè lontano dalla sensibilità borghese emergente. L'animo di Dante è terribilmente aristocratico.
A causa delle esigenze democratiche del suo tempo egli non poteva sostenere che il suo volgare letterario era il migliore di tutti (a causa dei risentimenti personali dovuti all'esilio egli non volle neppure sostenere che il fiorentino era il migliore di tutti: qui il Machiavelli ha perfettamente ragione); tuttavia, egli, in nome del suo idealismo aristocratico, pretende che l'unificazione linguistica avvenga con mezzi politici (cosa che poi in effetti avverrà più di mezzo millennio dopo).
In sostanza, Dante, in quest'opera, non sembra voler discutere con gli intellettuali su quale volgare meriti l'onore di sedersi sul trono delle letterarietà; si chiede soltanto in che modo sia possibile che il volgare illustre usato dagli stilnovisti e, in particolare, da lui, possa sedere su questo trono, visto e considerato che sul piano politico non esiste alcuna condizione per poterlo permettere. Mancando tali condizioni, un'opera come il De Vulgari non poteva che essere interrotta.
Il trattato quindi si presta a varie interpretazioni, avendo come background l'ambiguità fondamentale di un autore che è politicamente anacronistico rispetto al suo tempo, ma letterariamente di molto più avanti. In Dante, in un certo senso, vengono riflesse le contraddizioni anche di quegli intellettuali che pur essendo politicamente più moderni di lui, non seppero mai cercare con le masse un rapporto organico.
Molti critici ritengono che Dante cercasse un volgare italiano come principio ideale, senza riscontri storici. Cioè la sua intenzione non era propriamente quella di vedere nel fiorentino la lingua che la futura nazione avrebbe dovuto usare. Il volgare illustre da lui cercato viene trovato solo in parte in molti dialetti e integralmente in nessuno, proprio perché la sua lingua ideale, "quintessenza del volgare in sé", non esisteva che nella sua mente.
Qui ci si può chiedere: può il pensiero di una persona essere interpretato sulla base di quello che la stessa persona vuol far credere? E se si sostenesse la tesi opposta, cioè che Dante sottopose a critica tutti i volgari perché in realtà voleva perorare sola la causa del proprio, chi potrebbe negarla con prove indiscutibili? Se il tentativo di Arrigo VII avesse avuto successo, Dante, che si accinse addirittura a scrivere il De Monarchia, non l'avrebbe forse interpellato, come politico e letterato, chiedendogli di diffondere per tutta la nazione il volgare fiorentino? Non fece forse la stessa cosa il Manzoni coi Savoia, lui che non era neppure toscano?
Ma supponendo anche che Dante cercasse una "lingua pura", che andasse al di là delle parlate locali stricto sensu, per lui tutte difettose in questa o quella parte, non lo si dovrebbe forse criticare sempre di astratto idealismo? Può forse trovare una qualche legittimazione l'estrapolare arbitrariamente il volgare illustre dalle tante parlate locali, quando proprio i "difetti" di una qualunque lingua sono le condizioni fondamentali che ne sanciscono la storicità?
Quando Dante esordisce nel trattato dicendo che "cercheremo [tra il vulgare italico] quale sia la più colta e illustre loquela in Italia", non è forse già partito col piede sbagliato? Un volgare avrebbe potuto diventare "nazionale" solo perché considerato "illustre" dagli intellettuali, non perché ritenuto unanimemente più "popolare"? Avrebbe dovuto dunque essere il popolo a prendere atto di una decisione presa a tavolino da una ristretta cerchia di persone?
vedi anche De Vulgari Eloquentia
IV
LA SOLUZIONE RINASCIMENTALE
"Conviene che le lingue abbino una comune intelligenza"Niccolò Machiavelli
I) Il problema della ricerca di una lingua letteraria era naturale in un paese come l'Italia che, divisa politicamente e stratificata in classi sociali assai differenziate, adoperava, parlando, dialetti molto diversi tra loro.
II) Il latino veniva ancora usato nella trattatistica filosofica e scientifica, nei congressi dei dotti, nei tribunali (giudici ed avvocati parlavano in latino, gli imputati in volgare), nella medicina, nell'insegnamento universitario di tutta Europa. Tuttavia, nelle più comuni attività pratiche, nella corrispondenza epistolare dei dotti, nei rapporti diplomatici, nella storiografia l'uso del volgare tendeva a prevalere.
III) Nel '500 fu sentita vivamente l'esigenza di una lingua che fosse, nel contempo, nazionale (una per tutti gli scrittori) e letteraria (da potersi usare in opere di temi elevati e di forme eleganti).
IV) Vi erano due fondamentali correnti che si fronteggiavano per risolvere il problema di quale lingua darsi a livello nazionale: una tendenzialmente democratica, l'altra chiaramente autoritaria.
Corrente tendenzialmente democratica:
La lingua italiana. Il più importante fu il vicentino Giangiorgio Trissino (1478-1550), allora il più popolare di tutti. Nelle sue due opere Dubbi grammaticali e Il Castellano (1529) egli, in polemica col Bembo e col Machiavelli, sostiene che la lingua italiana dovrebbe essere detta "italiana" per genere, mentre come specie si dovrebbe chiamare lingua toscana, siciliana ecc. (al pari delle lingue straniere: francese/provenzale; spagnolo/castigliano). Il Trissino aveva posto per primo il principio della italianità della lingua. Egli riconosceva il primato stilistico alla lingua toscana, ma negava che i vocaboli usati da Dante e da Petrarca fossero tutti fiorentini o toscani, essendo invece specifici di altre regioni o comuni a tutte le regioni. Per cui rifiutava l'idea di dover imporre il fiorentino a livello nazionale. Traducendo e divulgando il De vulgari eloquentia, egli cercò di convincere gli intellettuali del tempo che anche Dante, non avendo privilegiato alcun volgare particolare, fosse favorevole a un'idioma "italiano". La lingua italiana doveva in sostanza essere il frutto delle parti migliori di tutti i volgari.
La lingua cortigiana, cioè delle varie corti d'Italia. Il più importante fu il conte mantovano Baldassar Castiglione (1478-1529), che nell'opera Cortegiano (1528) e nella Lettera dedicatoria a Don Michel de Silva (1527) si mostra contrario all'esclusivismo del toscanesimo linguistico, parlato e scritto, e rivendica i diritti della lingua italiana comune, senza pregiudiziale esclusione di latinismi o arcaismi latineggianti (quando sanzionati dall'uso colto), lombardismi (ch'egli tendeva a preferire), forestierismi, neologismi… Ognuno ha il diritto di scrivere nella propria lingua materna, diceva. Regola d'oro per la scelta delle parole è il loro uso effettivo, a condizione che il parlato non sia sciatto. Di qui l'uso spregiudicato, eclettico, meramente funzionale della sua lingua… Secondo lui gli intellettuali che frequentavano le corti principesche erano garanzia sicura di un buon volgare.
La lingua materna. Benedetto Varchi (1503-65), nella sua importante opera, Ercolano (1570), sostenne che la lingua parlata (che per lui era il fiorentino) andava considerata più importante di quella scritta, nel senso che un idioma può essere definito "lingua" anche se non produce opere letterarie, che sono sempre patrimonio di ceti intellettuali (viceversa il Bembo negava sostanza a una lingua che non avesse scrittori). Norma fondamentale dell'idioma doveva essere l'uso popolare (parlato, vivo, attuale), a condizione che non fosse né triviale né sciatto. Il fiorentino parlato -diceva Varchi- può anche essere di aiuto al volgare scritto, ma non è indispensabile all'uso scritto del parlare corretto. Il miglior scrittore sarà sempre quello che mette per iscritto la propria lingua materna. Il fiorentino, volendo, può anche diventare la lingua nazionale, ma senza imposizioni.
Corrente chiaramente autoritaria:
Il volgare illustre del Trecento. Il più importante era il veneziano Pietro Bembo (1470-1547) che nelle sue Prose della volgar lingua (edite nel 1525) mostra chiaramente d'aver capito, in quanto intellettuale borghese, il maggior valore pratico del volgare rispetto a quello del latino e, in particolare, quello del fiorentino su ogni altro volgare, ma, essendo di mentalità aristocratica, disprezzava la parlata del popolo minuto, per cui tendeva a rifiutare il volgare che usa locuzioni improprie, spurie, come p.es. in molti passi della Commedia dantesca. Da notare inoltre che nelle tesi del Bembo sostanziale era la letterarietà della lingua italiana, non la sua fiorentinità, ch'egli invece considerava accidentale: Dante e soprattutto Petrarca e Boccaccio diventarono grandi non perché parlavano fiorentino, ma il fiorentino divenne grande grazie al loro genio. Tesi, questa, antitetica a quella del Machiavelli. In sostanza l'unico criterio per accettare una lingua piuttosto che un'altra doveva essere estetico-stilistico, formale. In tal senso il volgare scritto del suo tempo, appariva al Bembo come di molto inferiore a quello trecentesco. Le sue idee comunque verranno poste a fondamento della compilazione del Vocabolario della Crusca (1612), destinato a diventare, grazie a soprattutto a Leonardo Salviati (1540-89), che fondò l'Accademia della Crusca (1583), un codice primario e perfino dispotico della lingua italiana per almeno un secolo e mezzo.
Il volgare fiorentino vivo. Il più importante fu Niccolò Machiavelli (1469-1527), che nell'opera Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua (1524 ca.), edita solo nel 1730, mostra chiaramente l'esigenza di valorizzare la lingua pre-letteraria e autonoma, "tutta natura", del popolo fiorentino, su cui si fonda il linguaggio letterario-artistico dei dotti. A suo parere la lingua parlata e scritta del popolo italiano dovrebbe essere il fiorentino, a motivo della sua superiorità strutturale e stilistica, già riconosciutagli dalle corti di Milano e Napoli e da tante altre regioni italiane. Grazie al volgare fiorentino -dice Machiavelli- sono potuti nascere dei geni letterari come Dante, Petrarca e Boccaccio, i quali, a loro volta, hanno per così dire sanzionato la superiorità della loro lingua rispetto a qualunque altra. Lo scritto dunque deve basarsi sulla parlata viva dei fiorentini. Naturalmente Machiavelli era consapevole del fatto che, essendo in perenne movimento, anche il fiorentino, come ogni lingua, era soggetto a influenze esterne. Di questo tuttavia egli non si preoccupava, poiché riteneva che la lingua avesse valore solo come mezzo (di unificazione), e non come fine. Proprio per questa ragione nel suo Discorso egli critica duramente Dante che aveva definito il toscano come turpiloquium non perché fosse veramente convinto della necessità di una lingua sovraregionale (come voleva intendere il Trissino), ma semplicemente per motivi di risentimento politico nei confronti di Firenze (la mancanza di patriottismo per un politico come Machiavelli era il peggiore dei mali). In sostanza quindi Machiavelli considerava il primato del fiorentino come uno strumento politico-culturale per realizzare l'unità linguistica nazionale e, insieme, quella geo-politica sotto il dominio del principato fiorentino.
La lingua toscana. Il senese Claudio Tolomei (1492-1556) sosteneva che prima del fiorentino, il primato toscano era dei dialetti pisani e lucchese, per cui se una lingua andava imposta all'Italia questa doveva essere la toscanità attuale e parlata. Sue opere: Polito, Cesano e Lettere.
La lingua della corte romana. Vincenzo Colli, detto il Calmeta, sosteneva che il fiorentino di Petrarca e Boccaccio andasse mediato dalla lingua cortigiana dei papi (Leone X e Clemente VII), che per sua natura poteva fare da tramite comune a uomini di diverse nazionalità.
V) Le tesi del Bembo ebbero la meglio: sulla base di esse l'emiliano Ludovico Ariosto, che scrisse l'Orlando Furioso nel 1516, infarcendolo di padovano letterario e di latinismi, si sentirà indotto a rivederlo profondamente in senso toscano nel 1532. La conseguenza maggiore fu che nei primi decenni del '500 si costituì una lingua letteraria, sostanzialmente fiorentina, ma arcaica e aristocratica, in quanto non attingeva dal fiorentino vivo del '500, bensì da quello trecentesco di Petrarca e Boccaccio. Questa lingua fu adottata da tutti gli italiani che trattavano certi generi come la tragedia, il poema, la lirica, il trattato, la novella. Essa costituì la base della lingua letteraria nei secoli seguenti e la base della lingua nazionale, a detrimento delle realtà linguistiche regionali.
VI) Naturalmente l'adozione di una lingua del genere, che non poteva essere appresa se non attraverso lo studio, accentuò le differenze di cultura e di gusto fra i diversi strati sociali italiani. La letteratura rifiutò sempre più di accogliere parole moderne o straniere (ivi incluse le idee che quelle parole esprimevano). Per i ceti subalterni gli impedimenti a un'ascesa culturale si faranno insormontabili. La loro lingua parlata retrocederà definitivamente a dialetto. Le tesi della Crusca, d'altra parte, erano tassative: gli "esterni" devono imparare dal popolo fiorentino la lingua viva; il popolo fiorentino dagli scrittori la lingua corretta, e gli scrittori dai maestri del Trecento. Per di più col Concilio di Trento (1545-63) la Chiesa fisserà norme precise che vieteranno tassativamente l'uso del volgare nella liturgia e nella traduzione della Bibbia; nel 1557 il Santo Uffizio emanerà il primo Indice dei libri proibiti.
VII) Nella seconda metà del '500 nascono varie Accademie di studi che permettono ai fiorentini di prendere il sopravvento sui settentrionali e sugli stessi toscani. Il granduca Cosimo de' Medici chiede all'Accademia fiorentina di stabilire le regole della lingua toscana (1572); nel 1589 viene istituita la prima cattedra di lingua toscana a Siena. I primi vocabolari nascono nella seconda metà del '500. Non sono semplici elenchi alfabetici, come sarà quello della Crusca, ma impianti strutturati e suddivisi per temi. La Fabbrica del Mondo, di Alunno di Ferrara (1548) prevede, come sezioni: Dio, Cielo, Mondo, Elementi, Anima, Corpo, Uomo, Qualità, Quantità e Inferno. Lo scopo è quello di poter costruire il mondo e dominare la natura attraverso il linguaggio.

Flavia 22-3 Lingua e dialetti





Lingua e dialetti

La Carta dei Dialetti d'Italia (Pisa, Pacini editore 1977) elaborata da Giovan Battista Pellegrini si basa prevalentemente sui dati dell'Atlante italo-svizzero (Sprach-und Sachatlas Italiens und der Südschweiz, Zofingen 1928-1940) raccolti negli anni venti. La Carta rappresenta oltre ai dialetti italoromazi -suddivisi in cinque gruppi principali (che l'Autore chiama "cinque sistemi dell'italoromanzo"), cui è aggiunto il ladino centrale, distinti da una diversa colorazione- anche le varietà alloglotte parlate entro i confini nazionali. I raggruppamenti dialettali si fondano sulla distribuzione di fenomeni linguistici -principalmente di tipo fonetico- segnalati da isoglosse. La nostra elaborazione interattiva parte da una carta generale dell'Italia ed evidenzia i gruppi dialettali sulla base della Carta del Pellegrini.

La richiesta di una sintesi di tutto quello che verrà considerto importante nella lezione è utile per due motivi: a) un aiuto alla memoria, in modod da poter studiare meglio e leggere i testi dati e b) un esercizio dellka lingua italiana, per disinibire il suo uso.
Verrà aperto un blog perché a turrno venga pubblicata una sintesi su ogni lezione. Vedete queste dritte: http://www.carlalattanzi.it/viewdoc.asp?CO_ID=21

Il rapporto che c’è tra lingua e cultura, è un tema molto importante. Dobbiamo chiederci:
Che cos’è uma língua? la língua è una espressione ufficiale di uno Stato, un´istituzione consolidata (che ha un esercxito, una diplomazia, ecc.)

Da dove viene l´accento (sotaque)? Si può dire che l´accento può essere legato a un´identità psicanalítica: esiste una resistenza (cioè una difesa contro qualcosa), per cui l´accento denota la volontà di manifestare la differenza, la diversità, l´estraneità.

Cos`e un dialetto: una lingua regionale, che non è lingua di uno stato e che ha una produzione scritta piuttosto piccola e non è particolarmente codificato (grammatica scritta, ecc.). Ma un dialetto ha una grammatica, una sintassi e una ortografia !

Esiste un paradosso per cui esiste uno stereotipo in una lingua straniera. Perchè la lingua definisce (l´identità, la normalità, la conservazione) mentre la literatura “rompe “, crea una frattura, un conflitto. La lingua tende a essere catalogata, a formare dizionari, a essere classificata e ingessata. La letteratura cerca di uscire dagli stereotipi, cerca di affermare uno stile nuovo
Una curiosità, lo Stato Italiano è stato fondato nel 1860/1861, però nel 1300 Dante, Petrarca e Bocaccio (tutti e tre di Firenze), cominciano la letteratura italiana, senza che ci sia uno styato a sostenerla. Si pUó dire oggi che il 70% delle parole dell´italiano contemporaneo provengono dalla Divina Commedia. Cioé, l´influenza di Dante è decisiva e lui può essere considerato il “Padre della lingua italiana”
Guardando le cartine, osserviamo che il dialetto è una lingua regionale, e che esistono circa 24 famiglie di dialetti in Italia, e anche ci sono dialetti che passano i confini politici dello stato italiano (per es.: il ladino, che è una parlata diffusa nel Nord d´Italia e in Svizzera, l´istriano, che è un dialetto italiano, che si parla in Slovenia, ecc.) .
In Italia si parlano 15 lingue diferente, per questo, c’è um problema nostro, perchè la literatura è analisi di particolarità. E eleggere di manera curiosa, che quando “guardava” il testo com occhi diverso.
Per finire, la cartina presenta il dialettu più importante, che si chiama Centro- Meridionali.
Carta dei dialetti è http://www.italica.rai.it/principali/lingua/bruni/mappe/mappe/f_dialetti.htm

http://picasaweb.google.com/pianurareno/AreeDialettaliInItalia#5367608063861182194

Daniel 7-6 Decameron Principe Galeotto

Daniel – Relazione 7/06/2010
Decameron o Principe Galeotto

Decameron o Principe Galeotto (parola con origini nel greco antico: deca "dieci" e hemeron "giorni", "Giorni"). È una raccolta di cento novelle scritte da Giovanni Boccaccio. L'opera è considerata una pietra miliare nella pausa letterarie tra la morale medievale, che ha valutato l'amore spirituale, e l'inizio del realismo, di avviare la registrazione del valore dei terreni che risultano venuto in umanesimo. Il divino esce di scena e la natura comincia a influenzare l'uomo. È stato scritto in dialetto toscano. È stato scritto in dialetto toscano con sottotitoli “Principe Galeotto”, il marchio di Decameron, con una certa chiarezza la transizione con esperienza in Europa nel tardo medioevo, dopo l'avvento della Peste Nera - anzi è in questo periodo di terrore che il racconto si svolge.
Decameron si apre con un romanzo molto irônico. Esiste un precedente di Decameron, chiamato "Satiricon" di Petrônio. Non è il Decameron che inveta l’erotismo, ma si la metafora di erotismo.
Decameron comincia il realismo nella tradizione Europea. Loro romanzi sono la base della letteratura moderna dimostrando una grande struttura formale.

Perchè considerare il Decameron realista?

Principe Galeotto è una citazione del Canto V del Iferno di Date (citazione metaletteraria). Presenta l'amore in Dante, ma un amante dell'amore. Stato quello di inferno e colpa del libro che leggono per fare questo e Boccaccio mette il personaggio del libro nel Decameron. Nel Decameron esiste una visione realistica, ma esiste anche il contrario, esiste la contruzione del meccanismo proprio.
Nel quadro in cui il Decameron ha ispirato (Il Trionfo dealla morte) coloro che vedono la morte, che lottano contro la morte, che sono spaventata a morte e eccetera.

lunedì 17 maggio 2010

Aimée 10-5 Dante nuovo classico

DANTE NUOVO CLASSICO



immagine del Limbo / Inferno di Dante







Dante nuovo classico




La differenza allá fine del Medioevo (1300) fra lingua "D´OC", "Lingua d´OIL (OUI)", la lingua del sì, che è un´espressione coniata da Dante (una vera e propria invenzione). La poesia provenziale (d'OC) e quella d'OIL avevano un grande prestigio in Europa, per essere base di una nuova forma di poesia. La tradizione italiana è molto influenziata da queste due fonti, questo modello di lingua e poesia (e musica) per cui Dante – che aveva interesse e bisogno di affermare una sua indipendenza - elabora il concetto della lingua del "sì". Si crea così il mito d'origine della lingua italiana (e il mito secondo cui dante é “il padre” della lingua italiana).
La "nuova" lingua è, difatto, all´80% fiorentino (che a sua volta puó essere considerata una lingua oppure, posteriormente, un dialetto) e un 10 % di contribuiti da altre lingue italiane (lombardo,siciliano, genovese, veneto, ecc.), inoltre: un aggiunta (un altro 10 %? ) di neologismi e qualche scelta grammaticale e ortografica diversa.
Niccolò Machiavelli, due secoli dopo, accuserà Dante di essere un bugiardo perchè la lingua della Divina Commedia non sarebbe altro che dialetto (o lingua) fiorentino.
Possiamo considerare il problema da tre punti di vista: linguistico, culturale e ideologico.
Le lingue neolatine sorgono dall'uso orale del latino mesculato a sostrati (lingue prsenti sul territorio della penisola prima della colonizzazione latina).
Per Dante sono 14 le famiglie linguistiche italiane. Tutte usano l'avverbio affermativo "sì". Lui, si propone di "creare" una lingua "migliore", più elegante dell'insieme delle lingue parlate nella penisola. È paradossale che Dante denigra l'insieme delle lingue "italiane", le critica violentemente.
Un testo teorico di Dante è De vulgari eloquentia, scritto in latino per farsi capire dagli intelettuali europei. Molti sono gli esempi diversi da lui criticati aspramente. Solo due poeti si salvano: "Guinizzelli e il suo amico." E risulta paradossalmente che l´amico che si salva insieme a Guinizzelli è lo stesso Dante!”.
La Divina Commedia ha un autore: che è Dante; un narratore principale: che è anch´esso Dante e un personaggio: anche lui è un Dante. Così, nella Divina Commedia autore, narratore e protagonista coincidono e indicano che il testo è una confessione o una biografia.
Nel 4º canto del'inferno, Dante descrive il Limbo. È la che si trovano i grandi saggi dell´umanità, che sono del mondo classico, pagano. Sono cinque: Omero, Virgilio, Stazio, Ovídio e Lucano... I cinque personagi si rivolgono a Dante che comincia praticamente allora la sua camminata nell'Inferno e sorridono. E Dante scrive "così fui sesto fra cotanto senno".
C´è anche una differenza tra Ulisse di Dante e l´analogo personaggio della tradizione classica. Ulisse ha di fronte a sé due proibizioni: 1ª) preso da una mania del navigare, infrange il veto classico, di non superare le colonne d´ Ercole. 2ª) Per la tradizione cristiana, Ulisse (paradossalmente pagano) cerca il purgatorio (la montagna che unisce la terra al cielo), cioè qualcosa di eretico e proibito.


domenica 16 maggio 2010

Isabella 10-5 Dante: Canto di Ulisse








Ulisse/ Dante : il viaggio

Fundital Isabella Lopes Pederneira, 10-5








Il Canto di Ulisse (Inferno/ canto XXVI)





Il canto ventiseiesimo dell'Inferno di Dante Alighieri si svolge nell'ottava bolgia dell'ottavo cerchio, dove sono puniti i consiglieri di frode. Il Canto XXVI tratta degli orditori di frode, ossia condottieri e politici che non agirono con le armi e con il coraggio personale ma con l'acutezza spregiudicata dell'ingegno. La personalità di Dante è molto forte, perché difatto vuole inventare un mondo nuovo e lui lo realizza nella Divina Commedia. Il paradosso è che, in pieno mondo crisiano, l'autore descrive un viaggio sull'inferno da vivo (e poi nel Purgatorio e Paradiso). Il testo letterario è conchiuso, delimitato dalla materialità della scrittura (dall´inizio e fine del testo), ma a ogni interpretazione rimette in moto il suo “meccanismo energetico”, ossia, produce un sistema interpretativo virtualmente infinito. Dante ha scritto e definito una storia, ma le sue possibili interpretazioni sono molte, sono senza fine, perché dipendono dasi diversi contesti di lettura a cui sono sottomessi e dalle differenti personalità (e interessi e visioni) dei differenti lettori. Il Canto XXVI non è diverso da questo contesto.
Si tratta del canto di Ulisse, l'eroe della guerra di Tróia, ma um Ulisse diverso da quello Omero. Dante si appropria del mito di Ulisse, presente nella Odissea di Omero (lui stesso non ha letto e non aveva l´Odissea né sapeva il greco) e il suo. Il suo Ulisse assume la mania di viaggiare, che è tipica dell´Odissea, ma non accetta il ritorno. Il nostos, quel ritorno a casa, presso la sua reggia di Itaca, accanto a sua moglie Penelope, il padre Anchise il figlio Telemaco.

“...Quando mi diparti’da Circe, che sottrasse me più d’un anno la presso a Gaeta, prima che si Enëa la nomasse, ...”

In poche versi decide di rivolgere la maggior sfida al passato classico e alla chiesa cristiana. Porta una nave con pochi marinai in Atlantico alla ricerca della montagna di Porgatorio, sapendo che morirà per questo, ma proclama:

"Fatti non foste per viver come bruti, ma per seguir virtude e canoscenza".
fumetto su dante
Questo Ulisse non è più quello di Omero, sarà il modello dei navigatori transoceanici del Rinascimento, dell´epoca in cui l´Europa è partita alla conquista del mondo. È tanto importante che Amerigo Vespucci, quando scrive sul “nuovo continente”, cita questo verso di Dante. Nel testo ci sono anche molti valori simbolici forti, come il modello dell´ esplorare.

“ma misi me per l’alto mare aperto sol con un legno e con quella compagna picciola da qual non fui diserto.
L’un lito e l’altro vidi infin la Spagna, fin nel Marrocco, e l’isola d’i Sardi, e l’altre che quel mare intorno bagna...”

Attraverso Ulisse, Dante diventa la base ideológica della nuova epoca. Ulisse infrange due veti: quello classico, di non superare le colone di Ercole “ ...a quella voce stretta dov’ Ercule segnò li suoi riguardi...”. In secondo luogo, il veto era posto dall´idealogia cristiana, perché a nessun' umano è concesso di cercare il Purgatorio e il Paradiso. Dante mostra un Ulisse audace e temerario che sa che il suo gesto lo porterà alla morte. Un’altra caratteristica di questi due Ulissi è che il viaggio nell´Odissea di Omero nella antichità è circolare mentre il viaggio di Ulisse di Dante è lineare. Ulisse dell´Odissea vuole tornare alla sua Itaca, mentre l´Usisse di dante progetta un viaggio lineare verso il fuori, l´estremo radicale, l´ignoto, o anche un´utopia, un ideale, un progetto. L'Ulisse di Dante è visto paradossalmente nella Commedia come un traditore, perchè ha conquistato la città di Troia tramite un inganno. L´altro invece è il prototipo di un esploratore. Perché la condanna di Dante? É possibile (in qesto come in altri casi)( che la condanna non sia “logica”, ma risponda ai criteri “morali” dell´epoca, cioè regole e norme fisse della Chiesa o della società (il tradimento). Ma Dante si identifica con il suo Ulisse.

martedì 11 maggio 2010

Jéssica 3-5-2010 Perché studiare la letteratura?/ Vespucci

Vespucci (l´equivoco del nome America)


















Relazione della lezione del 3/05/2010 Jéssica Gregório Pereira


Perchè studiare la letteratura?


Per conoscenza e autoconoscenza, per avere elementi di conoscenza sulla cultura, per conoscere l’evoluzione della lingua, può essere un elemento di piacere. La conoscenza e l’autoconoscenza funziona, la letteratura crea un modello chiuso, per esempio, un romanzo, una poesia, un racconto... Questo modello è retto da un sistema energetico interno: sono le figure retoriche, metafore, sinonimie, ecc che stabiliscono il sistema. Il testo diventa una macchina narrativa, questo significa che il lettore è obbligato a cercare e trovare il nunero massimo possibile di questi elementi di tensione. Il testo stabilisce allo stesso tempo un patto con il lettore. In questo senso, i raporto tra il lettore ed il testo, mette alla prova il sistema di lettura del lettore, e la sua carica afettiva (la sua “apertura affettiva”, la sua capacità di assorbimento affettivo). La macchina narrativa potenzializza la motivazione e la carica affetiva del lettore e la riproduce permettendo un insight (cioè una intuizione). Il testo letterario perche è conchiuso ma a ogni interpretazione rimette in moto il suo meccanismo energetico. L’interpretazione ha lo scopo di trovare un nuovo cammino interpretativo, radicalmente differente in grado di esplodere il testo, cioè aprirlo, ottenere un cammino d´ingresso, in modo da ottenere una potenzializzazione delle energie del testo. Un’interpretazione forte condizionerà il testo originale che mai più potrà essere letto in forma indipendente. Questa è un´idea di Harold Bloom, critico americano contemporaneo, autore de L´Angoscia dell´Influenza (tra gli altri libri). Per lui, fondamentalmente la storia della letteratura è edipica, cioè uno scrittore diventa forte quando “uccide” il suo percursore (come quando per la psicanalisi si “uccide” simbolicamente il padre e si acquista la propria libertà) Una letteratura forte, è sempre prodotto di una esperienza forte.
Per fare un esempío riguardante la letteratura italiana: Dante propone un accordo fra due tradizioni: quella classica (greco-latina) e quella cristiana. Dante si appropria della due culture e si fa portavoce della cultura classica (da lui) rinnovata. Questa è una grande novità. La Divina Conedia mescola una lettura “poetica“ e una lettura “teologica”, cioè queste due tradizioni creano una permanente duplicità della lettura di Dante e, difatto, costituiscono un sistema di interpretazione virtualmente infinito. La Divina Commedia inventa un modello di comportamento: linguistico, morale e politico. Nel canto di Ulisse (XXVI), Dante si appropria del mito di Ulisse (Odissea), ma lo trasforma radicalmente. Ulisse assume la mania di viaggiare e in pochi versi invecchia, decide di rivolgere una sfida al passato classico e alla chiesa cristiana. Guida una barca con pochi marinai nell´Atlantico, alla ricerca della montagna del Purgatorio, sapendo che morirà a causa della sua sfida doppiamente eretica, ma lancia il suo proclama:
Canto XXVI, v. 112
“"Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti
ma per seguir virtute e canoscenza"”.
L´uomo, quindi, non può arrendersi ai limiti postigli dal mondo classico o cristiano, perché virtude (cioè l´etica) e la canoscenza, cioè la curiosità del sapere lo spingono in avanti, sempre avanti.
Questo Ulisse, che non è più quello di Omero, sarà il modello dei navigatori transoceanici, del sec. XV. Amerigo Vespucci, quando scrive dal nuovo continente, cita questo verso di Dante nel suo “Lettera di Amerigo Vespucci delle isole nuovamente trovate in quattro suoi viaggi”

domenica 2 maggio 2010

L´invenzione del mito di Thot Caroline 28-4











Caroline Machado – Lit. I – 28/04/2010

L´invenzione del mito di Thot









Il problema della fondazione di una lingua è singolare.
Abbiamo verificato le problematiche della introudizione nel mondo greco della lingua scritta al tempo di Platone.
In fondo possiamo conisderare che l’invenzione di Platone nel Fedro (e cioè l´aver inventato un mito inesistente di Theut che crea la scrittura e viene per questo criticato), è come se fosse una barzelletta (una “piada”), oppure, un aneddoto o – meglio ancora - un mito creato su misura. Platone aveva un’alternativa nel Panteon greco: che era il mito di Mercurio, cioè, Il messaggero, ma che era considerato anche il dio della scrittura. C´è anche una tradizione, che vuole che Mercúrio corrisponde al Dio greco Hermes che, a sua volta, risale o ha analogie al dio egiziano Thot. In realtà penso che Platone non abbia voluto prendere il mito greco, quello di Mercurio, poiché era cosi noto che averbbe dovuto citarlo in ogni caso, anche negandolo. Invece Platone presenta un nuovo mito, che è quello di Thot mostrando che ha voluto cambiare il mito precedente o ha voluto lasciare la traccia di questo cambiamento per il futuro lettore. Platone ha inserito letteralmente, ha incuneato ho creato un´ossessione su questo problema nella storia della cultura occidentale. Questa premessa sulla storia della scrittura alfabetica e dell´introduzione della stessa (e della lotta che ha causato) mostra quanto la scelta realizzata da Dante possa essere stata altretanto radicale e poiena di conseguenze.

Quella che noi riflettiamo è una storia vista a posteriori (cioè “da dopo “, dal nostro punto di vista e non da quello di “allora”). La storia viene costruita e ricostruita sempre nnon è mai una acquisizione fissa e oggettiva.
La storia della tradizione occidentale, viene costruita, viene montata letteralmente nel 1500, com una preparazione a partire dal 1300 (e alla quale certamente Dante contribuisce). La storia cambia completamente. Nel 1300 abbiamo aspirazioni alla libertà, movimenti eretici, liberazione dell´arte e della letteratura dalle imposizioni di secokli conservatori e legati a un moralismo superato. Nel 1500, dopo aver messo piede nel Continente occupato dagli indigeni di varie tribù, dopo averlo “battezzato” (con un clamoroso errore) “America”, nel nome di Vespucci (e non di Colombo, como avrebbe dovuto essere), dopo averlo occupato e averne sterminato in parte o totalmente lka popolazione originaria, dopo aver acquisito un´identità come “vecchio continente”, la Vecchia Europa forma la sua ideologia e la sua visione del mondo. Il progresso, la scienza, lo sviluppo divengono obiettivi fondamentali. Il resto viene calpestato. Arriva l´Inquisizione.
Dante, è certamente un rappresentante del Medioevo, ma è anche un percursore del Rinascimento. Si può prenedere ad esempio il canto XXVI della Divina Commedia (inferno), in cui il personaggio dell´Odissea di Omero viene riletta e lanciata iin una lotta degna degli esploratori più avventurosi.





Commento al “De Vulgari Eloquentia” (dell´eloquenza volgare, ovvero: della lingua italiana)

In questo testo, Dante parla con uno stile “medievale”, cioè deve rispettare un modo di pensare che era permeato largamente dalla Chiesa Cattolica, la cui visione del mondo dominava..
Comuque, si nota che per lui la prima lingua è il volgare, cioè l´italiano, la lingua popolare e non più iol latino, come veniva considerato fino ad allora. Esempio: “Di queste due lingue la più nobile è la volgare.” (3º parágrafo, 4º linha)
La lingua dei Romani e dei Greci sono chiamate “grammatica”, perchè possiedono una grammatica e hanno uma struttura rigida e devono essere sempre legate a delle regole precise.
In principio, Dante deve fondare la sua visione linguistica su una base teologica nuova, sua personale, che mette in discussione alcuni punti della Bibbia. La sua visione teologica si forma insieme al testo, perché le immagini (fortissime) prendonbo il loro posto e condizionano il testo.

martedì 27 aprile 2010

19/ 04/ 2010 Isabella Pederneira Cinque paradossi della cultura italiana



Dante e Dante in un fumetto

Cinque paradossi della cultura italiana





Dante può essere considerado a ragione il padre della letteratura italiana. 70% della lingua italiana è nella Divina Commedia. Dante há in um certo senso progettato la lingua della cultura italiana. Abbiamo 3 generazioni diverse di scrittori in lingua italiana e tutti e tre sono della stessa regione e della stessa citta: il primo è Dante, poi Boccaccio e Petrarca è l’ultimo. La produzione letteraria dei ter sommi scrittori è estremamente caratterizata. Boccaccio forirà con il suo Decameron il modello della commedia e Petrarca per il sonetto.
Il secondo paradosso è che la letteratura italiana comincia con il suo apogeo, cioé il periodo più alto, che è un controsenso. Questo crea un altro complesso: quello della crisi e della decadenza, ossia: se si comincia al massimo della produzione, si potrà poi solo scendere. Francesco De Sanctis, il primo storico della letteratura italiana nel sec. XIX ha affermato che uno scrittore come Boccaccio rappresenta una crise etica, perché non parla di cose rilevanti, ma di futilità che appartengono al mondo della borghesia (sopratutto perché si occupa di amore e erotismo).
Um terzo paradosso: l’esplosione della nuova cultura si realizza nella città di Firenze. Probabilmente il motivo è da cercare nel fatto che Firenze è la culla e Patria di un nuovo sistema economico, che verrà chiamato ... capitalismo. In una città ricca, con grande produzione e commercio (per l´epoca), si accumulava piú ricchezza. Dunque, questo creava la possibilitá di una nuova figura: il mecenate e l´artista libero, finanziato da questa ricchezza. Forenze diviene meta di molti artisti e intellettuali.
Il quarto paradosso è legato allo sviluppo delle città italiane, sia economicamente che anche culturalmente: Firenze, Venezia, Milano, Roma, Napoli e Genova sono le città piú sviluppate. Nonostante questo presupposto, la penisola italiana non viene unificata. Quali sono i motivi? Schematicamente si puó dire che:
a. Il capitalismo, per svilupparsi, aveva bisogno di una superfície limitata, pari a quella delle città italiane: circa 100 mila abitanti, un po´ di entroterra (ma non molto). In una seconda fase, c´è bisogno di maggiore produzione, maggiore ricchezza, maggiore scambio. Da Firenze il centro del capitalismo migrerà verso l’Olanda;
b. Le città italiane erano in permanente conflitto fra di loro e non è apparsa una forza egemone (come Parigi in Francia, Madrid in Spagna).
c. La forza economica e militare delle monarchie nuove in Europa (la Francia e la Spagna) è superiore a quella delle città italiane. Nel 1494, un esercito di legionari al comando di Carlo VIII di Francia (circa 20.000) sbaraglia Firenze e poi Roma. Finisce, dunque, il sogno dell’unificazione italiana. Dal 1494 fino al 1860 non è stato possibile realizzare l’indipendenza.
Si può dire che il quinto paradosso della letteratura italiana è che Dante ha participato alla vita política della città di Firenze e, probabilmente, sulla base di un intrigo del Papa è stato condannato all’esilio e a morte. Da quel momento ( 1302) non ha più messo piede a Firenze ed è morto in esilio, dove ha scritto buona parte della Divina Commedia e altre opere. La lingua “italiana” di Dante ha anche la funzione di denigrare il “dialetto” ( o meglio “la lingua” fiorentina) fiorentino. Possiamo dire che Dante è un poeta dell’esilio e la sua lingua e letteratura rispecchiano la problematica dell’esilio.
Citazione di una lettera di Dante, che rifiuta il perdono offertogli dalla città di Firenze:

«Non è questa, padre mio, la via del mio ritorno in patria, ma se prima da voi e poi da altri non se ne trovi un'altra che non deroghi all’onore e alla dignità di Dante, l’accetterò a passi non lenti e se per nessuna siffatta s’entra a Firenze, a Firenze non entrerò mai. Né certo mancherà il pane».

Um accenno alla Beatrice di Dante. Può essere considerata la metafora della transizione fra la morte della persona amata che prepara il terreno alla poesia.

domenica 18 aprile 2010

Cultura e decostruzione 12-4 Bianca Fundital

La cultura è completamente dinamica e instabile, ogni giorno subisce modifiche. Le tracce si perdono, altre si aggiungono a velocità diverse nelle diverse società. Anche con tanti cambiamenti, le caratteristiche fondamentali di una determinata cultura possono consisderarsi, in un certo senso, stabili, almeno per l´immagine che proiettano. Il carattere di una cultura può essere sempre discussa, dal momento che ogni parola che costituisce il concetto può essere reinterpretata. Pragmaticamente noi usiamo per la nostra comunicazione un concetto fisso, che equivale a uno stereotipo, a un "cliché": cioè un´immagine fissa che non tiene conto delle modificazioni e delle caratteristiche individuali di un oggetto (o una persona). Quando si parla di caratteristiche di una determinata cultura, si ricorre alle ricorrenze della storia, cioè a avvenimenti storico che caratterizzano quel “popolo”m quella “nazione”, quella determinata tradizione culturale. Cos`E il carattere di una determinata cultura? Si pUó parlare di carattere? Ciò che è il “carattere” della cultura brasiliana o italiana è l´insieme delle sue avventure nella storia, dei suoi avvenimenti storici. Definire un “carattere” o delle “caratteristiche” è necessario, per la comunicazione, una specie di minimo comune denominatore, perché tutti si possano capire.
Fissare un carattere è una distorsione che crea uno stereotipo: per la letteratura è diverso e fondamentalmente il contrario rispetto alla cultura. L´importante per la letteratura è la materialità del testo, secondo quanto afferma il fisosofo e critico francese Jacques Derrida (Grammatologia). Importante per l´analisi della letteratura sono delle particelle del testo. Per es. Delle particelle insolite, un neologismo, una parola insolita: tutti questi elementi (insieme naturalmente al contesto) devono essere considerati. Si tratta di una lettura essenziale per la decostruzione del testo letterario. Il testo deve essere decostruito, deve essere esaminato nelle sue parti minime per poi essere ricostruito in un´interpretazione. Il testo letterario non dice niente, non parla, è come una partitura, dove le note sono le stesse per tutti i musicisti, ma ognuno le interpreta a modo suo. In linea di principio la letteratura è la rappresentazione di una esperienza nuova e potenzialmente non rappresentabile. Per cui richiede una nuova forma espressiva. Possiamo dire che si tratta di letteratura quando un testo esprime qualcosa di nuovo (in principio: “mai detto in precedenza”) espresso in maniera fondamentalmente nuova (espresso in maniera “mai scritta in precedenza”).

venerdì 9 aprile 2010


Emilio Villa (1914-2003), poeta e pittore, scrive in varie lingue (qui in Francese).




Samela 5-4 Letteratura e Impegno: Emilio Villa

Il problema dell´impegno
Ho inserito nel link un blog mio (etica della lettura/ etica da leitura) in cui ci sono molte immagini di Villa, il poeta di cui parlo. Nel blog metto anche il mio intervento.
RELAZIONE (parziale) di Samela, 5 abrile 2010
In principio c´è un contrasto tra impegno e letteratura. In principio, l´impegno è storicamente legato allo scrittore francese Sartre e a una concezione dell´intellettuale impegnato, una vera e propria missione in rapporto alle problematiche della società. C´è in questo una visione illuminista , della difesa della scienza e della conoscienza e del suo ruolo nella società. In rapporto a questo, la letteratura sta dentro al contesto della società, pertanto sembra in tutto e per tutto completamente influenzata dalla società: per es.: la questione della lingua usata è datata (cioè deriva da un determinato moemnbto storico). Le spinte sociali, economiche, culturali nellúno o nell´altro senso, influiscono certamente sulla tematica della letteratura, sul modo di produzione e diffusione dei libri e ha altri significativi effetti. In Italia, questo impegno è stato particolarmente forte nel Secondo Dopoguerra, con nomi come Vittorini ma anche Italo Calvino e poi Pierpaolo Pasolini e, sopratutto, nel cinema neorealista.
Ma – questa é la mia obiezione – non c´è un´influenza esterna, per quanto forte possa essere, che determini le trame interne del testo, le sue filigrane, le sue tessiture. Un testo, infatti, è sí prodotto di uno scrittore, che in precedenza pensa e cerca di mettere per iscritto (o sul computer) le sue idee. Ma una volta scritto e pubblicato (e editato in internet) il testo cessa di appartenere all´autore. Ci sono dei teorici, Foucault e Barthes che hanno sostenuto che l´autore è morto, nel senso ch non influisce più sull´interpretazione del testo. In questo senso, la lettura del testo non dipende dal contesto (dalla società, dalla storia) ma dagli elementi interni al testo. Il lettore é l´secutore del testo e, naturalmente, pensando il testo come una partitura, è al lettore che ticca dare una particolare lettura del testo, eseguirlo in questo o quel senso.

Cos`è la letteratura (tra le varie definizioni possibili, naturalmente!). La letteratura comunica al lettore un´esperienza nuova, una esperienza che è stata prodotta da uno scritore che per la prima volta ha elaborato un testo per rappresentare quella determinata esperienza nuova. Perché se uno scrittore rappresenta (cioè scrive su) un´esperienza già vecchia, già ripetuta: in questo caso ciò che emerge è un testo ripetuto, un calco, un plagio, uno stereotipo, un cliché. Il testo che emerge é un testo debole, che puó anche essere letto da un pubblicoi grande, ma che tendenzialmente non verrà riletto e verrá dimenticato.
Il testo che comunica una esperienza nuova e radicale deve essere rappresentato da una nuova "faccia": cioè deve essere rappresentato da un testo con caratteristiche linguistiche essenzialmente nuove. Il testo è una macchina narativa (con sue figure e strutture interne estremamente complesse), un´opera ingegnosa che permette al lettore - ´potenzialmente – di rivivere l´ esperienza originale. Un testo forte, per questo, è capace sempre di ritornare a eseguire il suo potenziale originale.
Nella mia conferenza ho cercato di presentare il poeta Emilio Villa, uno dei più grandi poeti italiani che sia mai esistito. E ho mostrato come Villa non ha aderito a tre movimenti importanti: quello ermetico (fra la Prima e la seconda grande guerra). Quello neorealista, che è un movimento importante del secondo Dopoguerra (dopo il 1945, essenzialmente) e, finalmente,quello della neo-avanguardia,del 1963. Villa é stato contro, o meglio: si é messo in disparte, non ha aderito. Ma la forza della sua poesia, della sia critica d´arte, della sua grafica é stata enorme ed ha veramente rivoluzionato una serie di concetti.

mercoledì 7 aprile 2010

Ci e Ne

NE e CI sono particelle avverbiale e pronominali:
Osserviamo:

NE:
Ne sono rimasta incantata!
Sono rimasta incantata di cìo! (de alguma coisa. Di cìo= disto, daquilo)

Ne parlano con grande entusiasmo.
Parlano di cìo con grande entusiasmo.

Conosci Paolo? Sì, e ne sono rimasta entusiasta.
Conosci Paolo? Sì, e sono rimasta entusiasta di lui.

NE: Pode substituir di cìo, di lui ou di lei. (Di lui=dele; Di lei=dela)

CI:
Credi a quello? Sì, ci credo!
Credi a quello? Sì, credo a cìo!

Crede in un futuro megliore? Sì, ci credo!
Crede in un futuro megliore? Sì, credo in cìo!

Vieni qui domani? Sì, ci vengo!
Vieni qui domani? Sì, vengo qui!

Vai domani in banca? Sì, ci vado!
Vai domani in banca? Sì, vado lì!

Vai a Rio? Sì, ci vado!
Vai a Rio? Sì, vado là!

CI: a cìo, in cìo, qui, qua, lì, là.

Mapa Ilha do Fundão - UFRJ

giovedì 1 aprile 2010

Vinicius Fondamenti



Nascita del commercio e valutazione economica delle città europee.
Vinícius 29-3

Nel 1300 Venezia e Firenze erano fra le città più grandi e importanti d´Europa. L´interesse per l´espansione commerciale era già molto grande: una nuova fase, in cui la struttura della società si modifica. I contadini affluiscono nelle città, che si rafforzano e conquistano libertà significative nei confronti dei signori feudali. L´esempio di Marco Polo, un commerciante di Venezia, è emblematico: organizza una spedizione fino in Cina, un paese ancora lontano per noi oggi, e allora al di fuori di ogni concezione, dat i mezzi di trasporto primitivi. Le città europee erano alla ricerca di una forma migliore di commerciare e produrre la seta, visto che Venezia era un grande centro di queste tipo di produzione (insieme a Firenze e altre città). L´industria tessile è quella che dá vita all´incipiente capitalismo
Così è cominciata un´espansione commerciale, la prima (la seconda sverrà realizzata nel Rinascimento).
Diversamente dalle altre parti d´Europa (che all’epoca non esisteva ancora!), queste città disponevano di grandi informazioni tecnologiche, eredità dell’Impero Romano. La penisola italiana, che era stata il centro dell´Impero (con Roma capitale), era piena di strade molto celeri, di industrie dell´epoca e di informazioni culturali. Doppo che è cominciato lo sviluppo economico, l´Italia ha potuto sviluppare la nuova forma economica, non essendoci un controllo imperiale (così come c´era in India e in Cina, mettendo un limite all´espansione). Il commercio e la manufattura e altre forme di produzione si potevano sviluppare. D´altra parte, l´Italia era una regione centrale del Continente europeo e un ponte naturale verso il mare Mediteraneo (a sua volta tappa obbligatoria per il commercio verso l´Oriente). Il commercio, a quell´epoca, si svolgeva per il 90% via mare.
Le Crociate sono state una forma della Chiesa di conquistare fedeli in altre parti del mondo, ma sono state sopratutto un veicolo dell´espansione dell´Europa (Venezia, Firenze, genova e alttre città europee) vero l´oriente dell´Mediterraneo (costituzione di un impero “latino”).

mercoledì 24 marzo 2010

Flávia Fondamenti




La richiesta di una sintesi di tutto quello che verrà considerto importante nella lezione è utile per due motivi: a) un aiuto alla memoria, in modod da poter studiare meglio e leggere i testi dati e b) un esercizio dellka lingua italiana, per disinibire il suo uso.
Verrà aperto un blog perché a turrno venga pubblicata una sintesi su ogni lezione. Vedete queste dritte: http://www.carlalattanzi.it/viewdoc.asp?CO_ID=21

Il rapporto che c’è tra lingua e cultura, è un tema molto importante. Dobbiamo chiederci:
Che cos’è uma língua? la língua è una espressione ufficiale di uno Stato, un´istituzione consolidata (che ha un esercxito, una diplomazia, ecc.)

Da dove viene l´accento (sotaque)? Si può dire che l´accento può essere legato a un´identità psicanalítica: esiste una resistenza (cioè una difesa contro qualcosa), per cui l´accento denota la volontà di manifestare la differenza, la diversità, l´estraneità.

Cos`e un dialetto: una lingua regionale, che non è lingua di uno stato e che ha una produzione scritta piuttosto piccola e non è particolarmente codificato (grammatica scritta, ecc.). Ma un dialetto ha una grammatica, una sintassi e una ortografia !

Esiste un paradosso per cui esiste uno stereotipo in una lingua straniera. Perchè la lingua definisce (l´identità, la normalità, la conservazione) mentre la literatura “rompe “, crea una frattura, un conflitto. La lingua tende a essere catalogata, a formare dizionari, a essere classificata e ingessata. La letteratura cerca di uscire dagli stereotipi, cerca di affermare uno stile nuovo
Una curiosità, lo Stato Italiano è stato fondato nel 1860/1861, però nel 1300 Dante, Petrarca e Bocaccio (tutti e tre di Firenze), cominciano la letteratura italiana, senza che ci sia uno styato a sostenerla. Si pUó dire oggi che il 70% delle parole dell´italiano contemporaneo provengono dalla Divina Commedia. Cioé, l´influenza di Dante è decisiva e lui può essere considerato il “Padre della lingua italiana”
Guardando le cartine, osserviamo che il dialetto è una lingua regionale, e che esistono circa 24 famiglie di dialetti in Italia, e anche ci sono dialetti che passano i confini politici dello stato italiano (per es.: il ladino, che è una parlata diffusa nel Nord d´Italia e in Svizzera, l´istriano, che è un dialetto italiano, che si parla in Slovenia, ecc.) .
In Italia si parlano 15 lingue diferente, per questo, c’è um problema nostro, perchè la literatura è analisi di particolarità. E eleggere di manera curiosa, che quando “guardava” il testo com occhi diverso.
Per finire, la cartina presenta il dialettu più importante, che si chiama Centro- Meridionali.
Carta dei dialetti è http://www.italica.rai.it/principali/lingua/bruni/mappe/mappe/f_dialetti.htm

http://picasaweb.google.com/pianurareno/AreeDialettaliInItalia#5367608063861182194